Tratto da: Guelfo Margherita: “Megalopoli mutante”. Ventre. La rinascita dell’architettura. IX n2, 10, 2004.
Proviamo a considerare la città come il prodotto, collocato in un contesto, di un lavoro metabolico che è la continuazione, ad un livello di maggiore complessità, di quello svolto dai geni dell’uomo per costruirne il corpo. Allora essa, come il favo o il termitaio per gli insetti sociali, e resa solo più complessa per l’incidenza delle variabili culturali, potrebbe risultare essere l'espressione di un fenotipo sovrasistemico iscritto nel DNA della specie umana; rappresentare cioè l’articolazione del discorso genetico per costruire il guscio di un corpo materiale all’entità collettiva (quella che gli etologi chiamano super-organismo). Un esoscheletro, per contenere la vita collettiva, che gli umani percorrono, con traffici molteplici, come aggregati di proteine-messaggeri, equivalenti al DNA, veicoli di informazioni necessarie a completare il progetto genetico, o come portatori di energia-lavoro, equivalenti al RNA-messanger, per costruire, adeguare, far crescere, istituire, al suo interno, strutture e relazioni.
In continua costruzione metabolica il corpo della città diviene allora lo spazio concreto per far accadere il progetto sociale che la anima, legato ad essa dalla relazione circolare di frutto e determinante. Si costruisce così un’entità psico-somatica in cui le caratteristiche mentali del gruppo che la fonda, derivate per esempio dalla sua storia, innervano la fisicità del sito, in cui essa s’indova, ricevendone stimoli e materiali. Si realizzano così specifiche città con identità differenti. Venezia e Milano, Tokio e Calcutta, Detroit e Baghdad differiscono tra loro, e insieme sono simili, ne più ne meno degli psiche-soma dei differenti esseri umani, magari di differenti razze.
Un tale insieme psico-somatico, con una definita identità, può possedere livelli di coscienza anche collettiva, ad esempio quella dell’identità sociale del gruppo fondatore? Questa potrebbe declinarsi in tre dimensioni, reciprocamente integrate, a cui vorrei ora accennare: lo spazio, la mentalità e le emozioni. Cioè come queste ultime abitino gli spazi a cominciare da quelli del proprio corpo urbano.
Lo spazio fisico che la città si dà ed occupa, e la maniera come lo occupa, sono in stretta relazione con le modalità con cui la sua mentalità lo usa per declinare le sue relazioni sociali ed i suoi miti. Le chiese e gli stadi, come le piazze ed i supermercati o i dormitori, le multi-sale cinematografiche o i musei, le scuole, gli ospedali, i cimiteri riempiono concretamente gli spazi sia come oggetti architettonici d’uso e sia come scenari in un susseguirsi di luoghi e non-luoghi (nel senso di Marc Auger). Questi vengono utilizzati, oltre che per gli usi di realtà quindi, anche per la declinazione sociale dei riti collettivi del vivere in comunità. E lo svolgimento, ritmicamente continuo del flusso vitale, il muoversi degli uomini in queste strutture complesse (the way of life), conferisce specifica identità storico-geografica non solo ai singoli romani, berlinesi o cariocas ma anche alle differenti città con cui essi vivono la loro relazione simbiotica.
Ed in queste strutture, che abbiamo così imparato a guardare come unità psicosomatiche, il flusso vitale viene plasmato dal sito nelle costruzioni che ne derivano, definendo differenti mentalità. Città marinare, guerriere, commerciali, agricole, minerarie abitano, con le loro mentalità, il loro esoscheletro che hanno creato trasformando il sito. L'adeguatezza del flusso emozionale a scorrere dentro i suoi confini identitari caratterizza il costante confronto benessere/ malessere tra le identità e gli ambienti, piacevoli od ostili, interni ed esterni a loro, che in un costante ritorno circolare costruisce le emozioni della città.
Se l’orgoglio ed il potere come vissuti emotivi hanno a che vedere con l’espansione dell’identità di una città fino, per esempio, al suo dilatarsi ad impero (Babilonia, Roma, Londra, New York, Pechino); la paura, come controaltare, riguarda l’attacco alla sua identità ed il pericolo del suo collasso o disgregazione. Stiamo considerando non tanto la paura degli uomini di vivere in una data città in un dato momento storico (come può avvenire ora a Napoli), ma la concreta paura della città, come collettivo unitario, di collassare e non sopravvivere alla Storia (come per esempio ieri per Cartagine, oggi per Kabul).
Dalla paura dell’attacco ambientale o dello snaturamento, la città storicamente si è difesa con la costruzione di un organo architettonico che sono le sue mura-pelle. Ciò che sta al loro interno è culturalmente e biologicamente omogeneo, amico; al loro esterno sta il diverso, il nemico. Le diatribe interne sono aggiustamenti d’identità che raramente sfociano in collassi. Si costruisce così un identità solida ed omogenea che ha a che vedere con la controllabilità ed il possesso omogeneo dello spazio cellulare abitato e ne scaturisce un senso di relativa sicurezza. La onnipotente fantasia ubiquitaria, legata all’avidità inglobante, è elaborata attraverso il dolore depressivo dell’ “ io non sono ciò che è fuori di me!” Questa elaborazione può restituire all’identità la sanità di limiti realistici.
La patologia della megalopoli è che il dissolvimento delle mura non è dovuto allo snaturamento di un attacco dall’esterno, ma allo sviluppo tentacolare dall’interno del desiderio, della onnipotente fantasia di scoppio ubiquitario, che ne trasporta i confini incontrollabili oltre l’orizzonte visibile. Lo spazio ed il lento tempo del viaggio non esistono più, annullati da metropolitane regionali, proliferazione e fagocitamento del contado, omogeneizzazione dell’informazione mass-mediatica, connessione elettronica che rende l’altro costantemente presente di fronte alla tua scrivania senza trasportarvi il suo corpo. Un fuori, dove proiettare il nemico, non esiste più in questa globalizzazione, e quello mentale si frammenta assumendo connotazioni ideologiche o religiose che la riempiono di clan e bande. L’identità, individuale e collettiva, si disgrega così e si disperde in uno spazio geografico incapace di contenimento perché senza confini; oppure in uno spazio virtuale in cui le concretezze del reale si trasformano in aleatorie volatilità (come ad esempio la finanza rispetto all’industria) che disancorano da concreti punti di repere geografico. In assenza, o forse in attesa, di un’ordinata organizzazione di convivenza, dovuta alla secrezione di un adeguato progetto sovrasistemico di governo metropolitano, ognuno ha diritto di cittadinanza in questo disordinato, caotico spazio senza confini, ed il nemico può divenire quindi mio vicino di casa. La crisi dei meccanismi di difesa della scissione e della proiezione nei confronti dell’angoscia persecutoria, impossibili in uno spazio omogeneo, rende la megalopoli uno spazio schizofrenico.
La crescita incontrollata é traboccata oltre i confini del codice-bibbia del gruppo fondatore. Se la Polis è la città del gruppo, la megalopoli è la città multietnica, il sovrasistema cosmopolita dei gruppi: clan, cosche, consorterie ideologiche, politiche, religiose, razziali vi trasportano dentro valori ed interessi conflittuali. Queste multi-centricità, sia geografiche che antropologiche, ne fanno esplodere l’identità unitaria frantumandola. Si forma così una mescola di dove ed altrove che ha perso le sue coordinate spaziali; con un progetto genetico saltato, che disorganizza relazioni, ruoli, compiti, gerarchie, affetti. Le transazioni avvengono più nella evanescente dimensione virtuale dell’apparire che in quella concreta e fattiva dell’essere. Si sviluppano così le zone tumorali. Queste, non più controllate dalla razionalità gerarchizzata del progetto unitario, inibito nel suo esplicitarsi dalla faziosità legittima degli interessi parziali contrastanti, si auto-organizzano in una dimensione parassitaria. I frutti di questi macro e micro-interessi parassitari disarticolati, come nella schizofrenia, da un’identità globale comune, invadono gli spazi reali della città, fanno smottare menti e case, scoppiare le fogne reali e fantastiche, ingorgare le strade e le relazioni, invaderne gli incroci d’immondizia non raccolta e le discariche di scorie nocive e persecutorie che mancano oramai di un altrove per essere collocate. Nelle periferie i nostri alieni-fratelli, dediti a incomprensibili traffici di auto-rapina ed auto-dissoluzione, diversi da quelli della nostra tradizione, inquinano il metabolismo di un corpo che si frantuma perché non più sostenuto dall’identità di un’anima unitaria ma dalla rissosità di mille anime. E divengono pericolosi gli incroci in cui il concittadino-nemico è in agguato perenne.
Tutto ciò senza speranza?
Forse nel fluire costante del rimescolamento genetico, la città del gruppo, in una crescita della complessità, sta producendo il mutante della megalopoli integrata dei multiformi gruppi che la compongono. A noi è dato vivere l’angoscioso periodo del suo assestamento, nell’attesa di una parallela mutazione, forse facilitata da buchi dell’ozono ed alimenti transgenici, che, sempre nella crescita della complessità, compatti e selezioni anche gli esseri umani, mutanti cellulari, in organismi più armonicamente regolati e fusi in funzione della collettività.