Gaia e l'Homo Sapiens - Fantapsicosaggio

Guelfo Margherita
"Gaia e l’Homo Sapiens. Fantapsicosaggio".
Franco Angeli, Milano,
2005.

DALLA QUARTA DI COPERTINA

Il fantapsicosaggio esplora una possibile catastrofe ecologica, da cui emergono nuove forme di vita, tra il dolore e la speranza di ogni trasformazione biologica e psicologica. Fluttua tra saggistica rigorosamente documentata e fiction, collocando tra il coscientemente folle ed il sufficientemente originale l’oscillazione tra sogno della scienza e scienza del sogno. Lo strumentario scientifico per l’analisi della complessità della realtà (frattali, equazioni non lineari, attrattori strani, teoria generale dei sistemi, strutture dissipative, autopoiesi) è calato in un narrativo di sensualità quotidiane sovraccariche d’emozionalità.

La frammentazione geografica e situazionale fa dei primi capitoli isole schizofreniche, che cercano i ponti che nella seconda parte del libro le congiungeranno in sistema. È un vortice che spazia dagli istituti di ricerca ed i campus alle agenzie governative, dal ponte sullo stretto all’Africa delle epidemie e dei genocidi, dalla terza guerra irakena alle segreterie vaticane o della Casa Bianca, da un’Australia rifugio delle specie mutanti alle sette indiane, per concludersi in una Capri che danza sul baratro del mondo un decamerone mentre fuori infuria la peste.

Dopo una Genesi cosmogonico-emozionale, alla luce di recenti ipotesi aperte al futuribile, il piccolo brain-trust che studia la catastrofe, scopre che la trama batterica ha prodotto un germe mutante capace di biologizzare il Cyberspazio congiungendosi ad Internet saldando un sistema nervoso a Gaia, dandole pensiero ed identità autonome. Oltre all’io autoanalitico, i personaggi che intrecciano teorizzazioni, amori ed avventure sono: James Lovelock e Lynn Margulis, gli scienziati reali propositori della teoria di Gaia; Fox Mulder e Dana Scully, i protagonisti della serie televisiva X-files; un Adamo ed un’Eva, idealisti contemporanei cacciati con la loro specie dal Paradiso Terrestre; Wolf e Rosalynd, alle prese con le loro tesi di dottorato sul "cervello unico" e su "sesso tantrico e matriarcato". Lo scopo "saggio" del libro è ipotizzare ed esplorare, alla luce delle teorie dei gruppi, le identità collettive collocate in una dimensione sovrasistemica transpersonale ed indagarne i linguaggi emozionali alla lucedelle teorie del sogno. Il libro forse è il tentativo di usare, per la "divulgazione scientifica", questo linguaggio onirico, proprio, come il mito, degli stati di coscienza collettivi.

 

 

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Indice

Primo Capitolo


Che ci faccio qui?

Quanto allo yeti, desideravo esplorare con i miei occhi quella nebulosa zona della zoologia in cui la bestia della classificazione di Linneo si incontra con la bestia dell’immaginazione
Bruce Chatwin

L’uomo accovacciato sulla collinetta battuta dal vento si alzò in piedi, si stirò le membra e tirò la zip della giacca a vento fino al collo. Si guardò intorno smarrito. A perdita d’occhio, nell’aria vespertina, un monotono panorama di basse collinette nella brughiera. Il vento aveva un vago sentore salmastro. Doveva essere la Patagonia perché sentì un infinito senso di solitudine il cui peso era legato non tanto al silenzio irreale quanto alla sensazione di assenza totale di Storia; un vuoto cieco di passato e di futuro. Natura pura, quasi allo stato geologico, che entrava nei suoi sensi col fascino iperreale di un presente dall’odore intensissimo di rosmarino e gli stimolava nel cervello uno stato mentale di eccitazione esplorativa. Ebbe l’impressione di essere germogliato in quel luogo, che cercava da tempo, per il ghiribizzo perverso del genio di una lampada.
Montò la tenda canadese ed ispezionò il kit di sopravvivenza per l’esercitazione solitaria: un grosso temperino svizzero multiuso che, come le tasche di Eta Beta, aveva la soluzione per ogni problema e la borraccia ancora vuota. In lontananza, sulla prateria, si stava addensando una nuvola bianca; uno sconfinato gregge di pecore merinos attraversato a tratti dalla macchia colorata di un gaucho a cavallo che roteava le bolas. La storia, non percorsa, stava rifacendosi in fretta agglutinando i re pastori nei villaggi tecnologici acquistati dalle multinazionali dei golfini.
Doveva fare presto, la marea delle domande distorte nel senso per ricevere risposte convenzionali stava giungendo anche lì. Guardò l’ora, poi il disco bianco della luna pomeridiana ed iniziò il rituale urlandole contro il millenario mantra dei pastori neonati erranti per l’Asia:
- “Ma io che ci faccio qui?” -
I suoi muscoli erano intanto esplosi in un’incontenibile danza selvaggia. Danzava il puro piacere di esserci e sentire di esserci. Il confronto elementare del suo corpo con la natura, la semplice sperimentazione del rapporto dinamico del suo sé con lo spazio, gli evidenziavano limiti che gli conferivano identità. Ogni viaggio, di qualunque tipo, è un’operazione, ritmica tra l’andata e il ritorno, per definire i propri confini insieme al tentativo di allargarli.
Danzò fino a crollare a terra esausto; poi portò la sua attenzione sul cuore che gli batteva frenetico, sul respiro affannoso, sui muscoli affaticati, sulle ossa dolenti e si sentì scoppiare dentro la gioia perché la coscienza del suo corpo riempiva il sito sconosciuto di un’unica risposta totalizzante: esistere. Anche l’eco materna della luna bianca gli stava ripetendo, con lo sguardo innamorato, in una tranquillizzante reverìe :
“noi esistiamo.”
Si sentì allora scivolare in una stuporosa serenità meditativa.

 

Seduto a gambe incrociate tirò fuori dallo zaino un grosso cilindro di vetro brunito, chiuso da un largo tappo di sughero, che sembrava provenire dagli scaffali di un’antica farmacia. Ne estrasse una boccetta piena di grosse pillole bianche, ne inghiottì una senz’acqua; poi un rotolo di fogli di carta. Rotto il sigillo di ceralacca, lo dispose per terra davanti a sé e vi poggiò sopra il palmo della mano recitando ad occhi chiusi la formula.
Al tatto sentì che il manoscritto condivideva con lui curiosità e stupore per quanto avveniva e seppe perciò, senza dubbi, che esso riguardava la traiettoria di un viaggio. I suoi occhi allora lo percorsero incominciando a leggerlo…………oppure a scriverlo.
Il contatto della sua mano sulla carta sprigionò una corrente d’energia sottoforma di calore, un vortice che smuoveva l’aria crescendo progressivamente d’intensità. Il vortice, come un fremito elettrico, percorse il braccio, raggiunse la spalla, arrossò il collo, invase il rino–faringe, perforò la lamina cribrosa dell’etmoide portando uno strascico d’incenso profumato al sandalo fino all’ipotalamo e alla pituitaria. Il mondo gli girava intorno e dentro il cervello.
Si lasciò andare senza timore alla vertigine che centrifugava idee, parole, segni, sensazioni, immagini, pensieri, teorie, emozioni, desideri, sentimenti, disaggregando le relazioni e le connessioni che definivano la sua identità. Il materiale triturato schizzava contro le pareti interne della scatola cranica perdendo consistenza e colore e diventando un impasto uniforme e spugnoso. Gli sembrò di avere in testa il capannone del deposito colmo della lana elettricamente tosata alle pecore merinos. Solo la sua coscienza, in asse col perno della centrifuga, gli permetteva di osservare senza vacillare.
In quella lanugine informe si sconnettevano i nessi fondanti le coordinate di conoscenza di sé e del mondo; passato, presente e futuro erano fusi in un tempo unico e così lo spazio: il dentro e il fuori, il vicino e il lontano, il sé e gli altri, la verità e la menzogna, il bene e il male. Sentì che l’attrazione gravitazionale di quel buco nero lo accelerava al massimo per raggiungere la stasi eterna dell’ infinito uniforme. Pensò che il contatto col manoscritto era senz’altro controindicato alle persone affette da stati cronici di certezza culturale o di sicurezza caratteriale, sia se idiopatici sia se difensivi; se superficiale, esso avrebbe provocato quantomeno irritazione; se profondo, la vertigine avrebbe causato vomito, diarrea di parti indigerite, intolleranza alla destabilizzazione al limite della crisi di furore distruttivo.
Il manoscritto e lui, avviluppati, nuotavano ora nello stato mentale che il loro vortice, come il ruotare mistico dei danzatori dervisci, aveva creato. La verità, esperita come condivisione, andava dissolvendosi e con lei perdevano la forma originaria, indistintamente mescolandosi tra loro in un orizzonte di chiarore omogeneizzato, luoghi e tempi diversi, personaggi ed oggetti della realtà, della fantasia, del sogno, della possibilità. Questi si riaggregavano nel vortice, non intorno ad un obiettivo accaduto cronologico da raccontare, ma secondo nessi associativi legati solo alla loro intrinseca, imprevedibile, capacità combinatoria. Significanti resi totalmente nudi si rivestivano di significati nuovi. In quello stato di coscienza si compiva un tradimento della realtà fattuale condivisa in nome della soggettiva contemplazione estetica. Le trasformazioni erano così evidenti che quelle bugie gli sembrarono non solo tollerabili, ma possibili in nome di plausibili verità più profonde.

 

Quando la centrifuga si spense sentì la necessità di riordinarsi un’identità sconvolta dall’esperienza. E andò a cercare la verità, culla della sua identità, in quel materiale uniforme che ora riempiva la sua scatola cranica. Questo, come in qualunque centrifuga, andava ora progressivamente coagulandosi, lungo le linee di forza del vortice, in densità decrescenti dal centro alla periferia.
Lo spaccato trasversale del suo cervello gli sembrò ordinarsi in strati di verità concentriche che definivano gironi infernali o paradisiaci. Ne individuò nove. Intorno ad un denso nucleo centrale di verità assoluta, mistico-noumenica, che chiamò O, ruotavano senza nette soluzioni di continuo, sfumando l’una nell’altra attraverso condizioni intermedie, la verità religiosa, la verità scientifica, la verità giuridica, la verità storica, la verità mediatica, la verità letteraria, la verità delirante ed infine quella onirica. La quantità di antiverità, cioè di bugia, con cui le verità erano mischiate a formare la schiuma, gli sembrò crescere, inversamente alla verità, dal centro alla periferia. Sapeva che l’infinita, purissima, immobile simmetria della verità noumenica non avrebbe mai potuto essere colta dalla sensorialità che costruiva l’identità e capì che la quantità di bugia, con cui si diluiva nelle verità parziali a formare la schiuma, era necessaria per asimmetrizzarla e renderne possibile la fruizione quotidiana. Con questa schiuma si costruivano ruoli e istituzioni che conferivano identità ad individui e gruppi e permettevano alla verità, in quegli spazi intermedi, sia il contenimento che la celebrazione di riti: a questo anche servivano chiese, eserciti, accademie, redazioni, tribunali, manicomi. Solo l’anello centrale privo di schiuma non conferiva identità alcuna, anzi la sottraeva, sostituendola col vissuto esperienziale fusionale della Grazia di San Francesco o dell’Illuminazione di Buddha.
Sapeva che la sua visione aveva a che fare con lo stato di coscienza di una verità delirante, ma si sentì di sfidare il manicomio, dove peraltro aveva a lungo soggiornato. Proprio lì aveva imparato ad usare un linguaggio che creava contesti emotivi condivisi che, come una schiuma protettiva, permettevano di scambiare, con pericoli relativi, i bagliori della verità e la certezza della posizione illusoria.

 

Osservazioni e riflessione gli avevano fornito quattro variabili da correlare per rispondere ai suoi interrogativi sul mantra e sulla visione: verità, identità, stato di coscienza e linguaggio. Pensò perfino che poteva formulare una di quelle equazioni non lineari che gli facevano grattare la testa essendo l’impalpabile ossatura della complessità:


i (±v) Sc = l.


La schiuma di verità ed antiverità definiva identità individuali e gruppali che reincontravano verità in una relazione circolare. Il tutto avveniva in un contesto mantenuto dalla variabile dello stato di coscienza da loro prodotto nell’incontro. Se questo era coerente col livello della relazione, verità ed identità crescevano nutrendosi a vicenda in un rapporto conviviale. Se lo stato di coscienza si collocava ad un livello incoerente con la relazione, verità ed identità entravano in un rapporto parassitario in cui la verità distruggeva una identità che la negava essendo incapace di accoglierla. Gli stati di coscienza derivati dall’incontro verità – identità si ordinavano lungo un continuum che generava prodotti, coerenti con essi, che andavano dalla certezza della fede, passando per i ragionamenti scientifico, giuridico, via via fino al delirio ed al sogno.
Se il primo termine dell’equazione era integrabile, ne derivava come secondo termine un linguaggio adeguato: interno per capire, esterno per condividere. Un linguaggio che permetteva di scambiare non solo i contenuti dell’esperienza fisica della realtà, ma anche i contesti emozionali comuni dove quella particolare esperienza di realtà diveniva condivisibile.
All’improvviso capì il perché di quell’ora, di quell’orizzonte, di quel rituale in cui un libero, limpido fluire associativo si declinava per l’assenza di memoria e desiderio. Si trovava in uno dei pochi luoghi in cui era possibile centrifugare la realtà in lana di nuvole e pazientemente filarla per intrecciare nuove trame colorate. Capì anche che il suo lavoro era finito… oppure stava per incominciare.

 

“Pene!” disse facendolo uscire dallo stato oniroide la voce con accento tedesco dietro le sue spalle, “ci fetiamo ciofetì”. “Forse” sussurrò tra sé e sé l’uomo alzandosi dal lettino. Infilò la giacca a vento sul maglione peruviano e chiuse la zip fino al collo. Poi si voltò verso il bianco vecchietto con l’aria un po’ triste e sentì che anche lui condivideva il dolore del distacco. Ne indovinò allora finalmente la tenerezza sotto la severità. Sentì un profondo moto di gratitudine verso quel volto increspato. Vuoi vedere che canizie e rughe erano il frutto del peso e della noia che le sue elucubrazioni pseudoscientifiche gli avevano causato? Nonostante ciò proprio quell’uomo, al momento ancora sostanzialmente sconosciuto, era stato capace di sostenere fino in fondo il racconto dei suoi deliri e di aiutarlo alla fine a coglierne e condividerne la poesia conferendo loro valore comunicativo e dignità relazionale. Lo guardò allora dritto negli occhiali di tartaruga rigorosamente riflettenti e gli disse: “Dica la verità Dr. Fliess, avermi in autoanalisi le ha dato lo stesso divertito sgomento di un visionario libro profetico di William Blake!”
Si sedette allora alla scrivania e riaccese computer e stato mentale. La danza ritmica dei tasti iniziò ad incarnare le visioni del manoscritto.

Anteprima da Google Books:

a seguito di una improvvisa (e non comunicata) decisione della piattaforma Google Books l'anteprima del libro non è al momento visibile