Antonio Scala, Antonio De Rosa, Guelfo Margherita, Lucio Vacca, Raffaello Vizioli (a cura di)
“L'immagine della follia”.
Liguori, Napoli,
1984
DALLA QUARTA DI COPERTINA
Il libro raccoglie i contributi di studiosi di diverse discipline: psichiatri, psicologi, etnologi, storici della religione, ed è diviso in quattro parti: L'immagine della follia 1) nella cultura popolare, 2) nelle sue istituzioni, 3) e l'informazione, 4) nell'arte e nella letteratura.
Punto di partenza e di incontro dei vari autori è la considerazione che la cultura occidentale è ancora in larga parte basata sull'ideologia del "separare", del "dividere" dell'"allontanare" il cattivo dal buono, il malato dal sano, il povero dal ricco, il peccatore dal santo, il deviante dal normale e così via con una serie infinita di dicotomie che da secoli hanno permesso all'uomo di opprimere l'uomo; di conseguenza il discorso sull'immagine della follia, sull'opinione cioè che l'uomo della strada ha del folle, non può non tener conto di tutto questo carico storico, non può non spingersi verso la ricerca delle radici.
E' ovvio che ogni progetto di "terapia" della follia deve tener conto dell'esigenza di ricomporre l'uomo, di riunire al corpo sociale quello che tende ad esserne allontanato, di superare le divisioni, gli schieramenti, gli stigma, di promuovere, in una parola, anche il diritto alla "diversità" senza che per questo diversità significhi necessariamente emarginazione, non rendono possibile la tolleranza e l'accettazione.
In altre parole abbiamo paura dell'irrazionale che è in noi e tendiamo ad incistarlo, a racchiuderlo negli altri, nei "diversi" ufficiali che proprio per esserlo a permanenza permettono a noi di esserlo saltuariamente senza troppi rischi. Ma nonostante ogni precauzione ed ogni cautela i confini sono quanto mai labili ed il rischio di passare dalla categoria dei normali che saltuariamente si permettono qualche follia a quella dei folli che saltuariamente si permettono qualche normalità è sempre presente! La soluzione (e la speranza) è quella di abbattere questi confini; non vi devono più essere normali (un pò folli) e folli (un pò normali) ma uomini con problemi, speranze, felicità, disagi più o meno grandi, dove le differenze, se proprio devono esserci (e non dovrebbero), siano solo di tipo quantitativo ma certamente non in riferimento ad una diversa qualità dei soggetti.
Il problema prossimo futuro dunque è quello di riappropriarci della follia; se dal folle = diverso siamo passati al folle simile a noi, dobbiamo ora accettare la quota di follia che è dentro di noi. Solo accettando la follia che è dentro di noi potremo accettare gli altri con la loro quota di follia. Allora la follia sarà un pò meno "aliena", un pò più "quotidiana", incuterà meno timore e susciterà meno difese in ciascuno di noi.
Parte seconda - L'Immagine della follia nelle sue istituzioni
Introduzione alla sezione del Prof. Guelfo Margherita
Questa sezione presenta un gruppo di lavori, in parte portati al Convegno sull'immagine della follia in parte in altri Convegni, che hanno tutti a che vedere con l'immagine della follia nelle istituzioni sue proprie. Non si tratta di testi che seguono l'impostazione oramai routinaria e quindi accettata e data per scontata del rapporto causale istituzioni-follia, caro ad una certa sociologia americana ed alla nuova psichiatria italiana o di rapporti sull'emarginazione, ma l'ottica è qui prevalentemente clinico-gruppale e l'istituzione più che gabbia della follia è approcciata come luogo pulsante in costante interazione dinamica con essa.
Ne viene fuori un'istituzione non esclusivamente mortifera ma anche viva, un'istituzione "specchio" della follia esterna e nello stesso tempo dotata di una follia sua propria a livelli delle sue organizzazioni profonde e capace quindi di rimanere controtrasferalmente in "simpatia" con le vibrazioni dissonanti della psicosi.
Introduco il tema sottolineando l'osservazione in due filoni che a me sembrano centrali e che tracciano una linea di congiunzione ideale che scorre attraverso gli scritti che peraltro, come sempre succede in raccolte del tipo di questa, sono abbastanza differenti tra loro: il primo filone riguarda l'accento messo sulle dinamiche gruppali, interne all'istituzioni o proprie del suo rapporto con gli altri gruppi organizzati esterni, con cui essa impatta, ammortizza ed elabora la follia; il secondo ha che vedere, implicitamente o esplicitamente con la metodica controtrasferale usata come modello per entrare in contratto con la follia oggetto del lavoro della istituzione e con quella invece propria dei suoi propri spazi e della sua organizzazione. Vengono alla mente le suggestioni di Bion, di Bleger, di Jaques su come l'istituzione si modelli in fondo intorno all'oggetto che tratta e ne mutui caratteristiche, o su come essa si strutturi e costruisca quale meccanismo di difesa nei confronti delle angosce schizoparanoidi e depressive dei suoi membri anche sani.
Il primo lavoro, scritto da me, propone l'immagine della follia nell'interno del setting psicoanalitico, che è forse l'espressione più raffinata della istituzione "psicoterapia". In esso viene indicata la profondità degli spazi dentro cui analista e paziente, fusi nella relazione analitica, sperimentano il comune coagulo delle loro angosce psicotiche connesse con lo sconosciuto, con l'aldilà e lavorano per definirsi e venirne fuori.
Nel lavoro di Giuliani, Tridente, Di Pietro, Sorge e Curci, la follia è dall'altra parte di uno specchio unidirezionale (solo da quella? Verrebbe da domandarsi insieme agli autori) di un'istituzione universitaria che si interroga in gruppo sull'oggetto della psichiatria su cui fare esperienza e didattica e coraggiosamente sperimenta sulla propria pelle che tale oggetto si ritrova vivo, pulsante ed eloquentemente parlante a chi sa e vuole ascoltarlo, nei soggetti stessi che vi si avvicinano.
Lo scritto di Volpe, Celani, Del Vecchio e Pilla, mi fa pensare, anche se non esplicitato dagli autori in questi termini, ai precisi meccanismi di difesa che un'istituzione policlinico universitario, usa nei confronti dell'angoscia collegata non con la sofferenza fisica ma con le manifestazioni del dolore mentale dei suoi ricoverati. Essi sono la negazione insieme al dolore mentale del proprio servizio psichiatrico destinato a trattarlo da una parte e dall'altra espulsione, attraverso l'agire una vera e propria identificazione proiettiva, in esso della propria parte paziente/impaziente ed insieme a questa di quella propria parte rifiutata perché umana e non tecnica e proprio perciò forse capace di utilizzare una terapia basata sul con-patimento.
Nel lavoro di Villa, Parisi, Fioretti, Troccolo e mio, viene usato un modello antropologico, la struttura istituzionale del villaggio dei Bororo descritta da Malinowski, per fare luce sulle difficoltà di rapporto che un servizio di saluto mentale territoriale affronta incontrando le altre istituzioni e si propone quindi di mutuarne le tecniche ed i "luoghi" istituzionali per cercare di risolverle.
Segue ancora un lavoro di Villa, Parisi e mio, in cui, rifacendoci ai miti di fondazione della città, cerchiamo di individuare i movimenti rituali con cui dallo spazio indefinito e contiguo del sacro e del folle si struttura e organizza l'istituzione città. E' necessario che la struttura dello spazio sacro celeste, naturalmente nel suo valore simbolico, sia armonica con i "cardi e decumani" pratici della città perché vi sia una ideale situazione di salute mentale.
Segue poi un mio scritto in cui cerco di individuale organizzazioni e comportamenti psicotici all'interno delle istituzioni ed enti amministrativi che sovraintendono il lavoro di un servizio di salute mentale e denuncio il grave stato di disagio che la loro presenza induce. In appendice viene riferito lo sforzo organizzativo, peraltro costantemente frustrato, che il nostro servizio compiamo per cercare di darci, in opposizione al movimento disgregativo che ci viene indotto, un'integrazione più o meno coerente ed un senso.
Intento infine dell'ultimo mio lavoro che chiude la sezione è quello di indicare ed evidenziare due grossi movimenti pulsionali: l'uno verso l'integrazione ed individuazione, l'informazione la terapia e l'altro verso la frammentazione e disgregazione, l'entropia, la psicosi. Esempi tratti dalla pratica clinica del lavoro territoriale di confronto con la follia sottolineano l'organizzazione/disorganizzazione che il loro ritmico pulsare induce in spazi contenuti in dimensioni differenti anche se concentriche: lo spazio sociale di un quartiere del centro storico di Napoli, quello istituzionale di un'èquipe di salute mentale e quello individuale di una paziente in terapia analitica.
In conclusione, il paradosso che viene fuori dalla lettura di questi scritti è che nello spazio mentale progettuale delle istituzioni che trattano la follia questa non è presente solo come immagine disponibile alla progettazione delle operazioni, ma è invece presente anche come oggetto concreto e vivo, in perfetta coerenza col pensiero schizofrenico, che è necessario imparare a riconoscere al proprio interno e con cui bisogna, se si vuol operare in questo campo, fare i conti. Per converso nella realtà extraistituzionale, l'oggetto della follia approcciato con la baldanza e sicumera pratica e legislativa dalla nostre istituzioni che lo gestiscono, si rivela essere un "bizzarro" coagulo massicciamente contenente anche le parti immaginarie e fantastiche di chi la circonda e di chi in un modo o in un altro la tratta.