Su gruppo e istituzione

8 Febbraio 2012 - intervento del prof. Guelfo Margherita

al Dibattito online dei soci SPI: "Istituzione, Gruppi e Alleanze Inconsce"
(1/2/2012 al 14/4/2012, a cura di Francesco Carnaroli e Claudia Pellegrini.)

 

L’istituzione, anche la nostra, può essere considerata un campo organizzato necessariamente gestito da un potere. Parlare di potere ci può aprire o ad un discorso su gestione e regole politiche o ad uno più specificamente nostro che apra alla comprensione elaborativa di stati mentali individuali e gruppali, connessi con la violenza, l’invidia e la superbia.

Provo a corredare le relazioni introduttive, che sento di assetto teorico-politico, con l’emozione di un materiale clinico, tratto dagli archivi ufficiali della nostra società. Inserisco cioè, senso, mito e passione su antichi accadimenti posti in sacche di silenzio che contengono: padri fondatori, alleanze inconsce, patti denegativi, scene madri. Essi sono stati, all’epoca, ben gestiti politicamente dalle nostre dirigenze; l’evidenza è il peso internazionale assunto poi dalla nostra società. Resta però ancora da esplorare l’ampiezza reale dei gradienti di libertà entro cui è lecito che si muova un libero pensiero per essere riconosciuto legittimo. Cioè l’elasticità di cui è dotato il nostro contenitore societario sia nei confronti dell'interno (le nostre spinte trasformative) sia dell’esterno (le richieste alla psicoanalisi della cultura post-moderna). Cioè in fondo la sua capacità biologica di sopravvivere adattandosi ed evolvendosi.

Il materiale è la dichiarazione di voto consegnata agli atti di una drammatica assemblea della nostra società, tenuta a Milano nel Nov. 1992, (quella della espulsione di Traversa e Muratori su esplicita richiesta dell’IPA). Mi interessa: a) vedere se è clinicamente possibile pensare ora le invarianti problematiche non risolte (libertà, ortodossia, acquiescenza, evoluzione) tra i vari enti dell'insieme stratificato "Cultura Scientifica/IPA/SPI/Soci", riattualizzandole col transfert in un setting più asettico e attuale (il nostro dibattito); b) osservare l’efficacia, da me individualmente costatata, del modello in trasformazione onirica per parlare di accadimenti violenti. Il tutto per individuarci fratelli, perlomeno in un "mito fondatore" non di un raggruppamento con intenti di egemonie politiche, ma di una società scientifica che studi con rispetto le emozioni vissute nei miti di fondazione ed individuazione delle strutture collettive (magari anche la nostra).

Bertoldo incontra Creonte(1)

Veramente viviamo in tempi duri!
Noi, quei noi che volemmo edificare la gentilezza
non potemmo essere gentili.
(Bertholt Brecht)

.........o no?
(Bertoldo)

Se un fenomeno indesiderato (sintomo?) si ripresenta a scadenze periodiche nella storia di un’istituzione, c’è da pensare che forse ne possa rappresentare un rituale; non uno di quelli con cui essa si declina nello svolgimento dei suoi compiti e mandati manifesti, ma magari uno di quelli destinati a gestire sul versante latente i suoi ritorni d’angoscia e necessità di conferme a traballanti identità.

Certo un rito può essere anche la modalità con cui un gruppo espia una colpa genetica, “peccato originale”; per es. gli acting-out di un padre fondatore di un ingombrante valore, dolorosamente sopravvissuto ai suoi eredi naturali e non ancora datosi in comunione ai dodici allievi prediletti per poter permettere una distaccata elaborazione agiografica; oppure l’equazione personale immodificabile, forse biologica, assunta magari a vera e propria via nazionale dal gruppo, a recitare e drammatizzare pubblicamente tutto in termini di scandali.

Cercare di ricostruire gli avvenimenti come un mito, mettere a nanna cioè la ragione ed il suo linguaggio della testa ed ascoltare il linguaggio del cuore e della pancia che i vituperati “mostri” partoriti dal suo sonno ci suggeriscono, dare ai protagonisti lo spessore di eroi emblematici e simbolici ed ai fatti la drammaticità dello svolgimento del loro ineluttabile destino, può da una parte permettere una comprensione anche affettiva di quanto succede e dall’altra aiutare il gruppo ad elaborare e riordinare le passioni suscitate.

Questo è quanto mi è successo quando mi sono fermato a riflettere sugli affetti e gli interrogativi d’identità che ambivalentemente mi legano ad una istituzione che sento ambivalente perlomeno come Abramo nei confronti dei suoi figli.

La decontestualizzazione e ricontestualizzazione, cioè la frattura della storia diurna e la costruzione di un altro scenario, sono operazioni del sogno e della mitopoiesi. Vediamo allora comparire sbavanti draghi intenti a rapire pulzelle; prodi Lancillotti che invano attendono in veglia d’armi di farsi ordinare cavalieri da un Artù recalcitrante, forse per via di Ginevra; un santone benemerito che periodicamente invoca i fulmini di Dio su Sodoma e Gomorra; signori degli anelli, gelosi custodi di regole; castelli assediati forse retti da incompresi tiranni; giardini di Klingsor in cui corrotte urì distolgono dalla loro vocazione un manipolo di novizi; piccioni viaggiatori depistati; intempestivi scampanii nazionalisti in risposta a squilli di tromba forse troppo marziali ed il calare a valle di un solido esercito di lanzichenecchi chiamati a restaurare l’ordine dell’imperatore, forse con qualche saccheggio e qualche stupro, forse bene accolti come i soliti liberatori americani che ci portano, oltre al pane bianco e al boogie-woogie, qualche lezione di democrazia.

Bisogna starci, nel mito non c’è da scegliere; hanno tutti ragione ed ognuno fa la sua parte (non ci accade forse lo stesso a contatto con i frammenti persecutori d’inconscio dei nostri pazienti più regrediti?).
A questo punto entra in scena Bertoldo. Perché Bertoldo?

Amo Bertoldo, campagnolo borderline a corte, ingenuo, saggio, invidioso, dispettosamente provocatorio, egoista, amante della sua libertà, del suo pensiero e delle sue esperienze di vita che fa fino in fondo perché ci crede e paga anche personalmente ma che non omogeneizza il suo cervello con nessuna religione o credo nemmeno se milita nell’ultrasinistra o veste di arancione; resta capace sempre dopo ogni proposizione affermativa sperimentata di domandarsi:…o no? Lo amo perché se è testimone di un evento, anche in questi tempi duri, sente il dovere di testimoniarlo.

Tutto sommato mi ci sento simile, io, psicoanalista borderline, un po’ saggio, ma non troppo, un po’ incazzato, ma non troppo, un po’ deluso ma non troppo. Borderline per perlomeno tre buone ragioni: la prima geografica. Vivo a Napoli, nel paradiso-inferno posto al bordo delle grandi capitali (Roma, Milano, Parigi, Londra, New York) dove si decidono i piani quinquennali. La seconda di identità psicoanalitica: sento la mia non in maniera totalizzante e mi riconosco naturalmente altre identità, ad es. medico, psichiatra, psicoterapeuta, ex primario ospedaliero oltre a condomino, teleutente, ex tifoso di Maradona e, principalmente, di essere umano che, quando richiesto, si sente pervaso da tensione etica come tale e non solo come psicoanalista. La terza è politica: sono poco interessato, in fondo, per la conduzione del mio orticello psicoanalitico, a chi sia l’imperatore o il papa a Roma o financo l’abate della più prossima certosa, anche se naturalmente umanamente mi succede di giudicare i loro comportamenti; mi interessano invece e mi risvegliano il clima ed i valori che permeano il regno ed inevitabilmente condizionano l’atmosfera in cui lavoro facendomi chiedere chi sono e cosa faccio. La quarta, ed eventuali seguenti ragioni, la lascio aperta agli inevitabili mormorii e risolini sui disastri della mia infanzia a questo punto necessariamente infelice ed irrisolta.
E Bertoldo incontra Creonte. Perché Creonte?

Amo Creonte, perché nella mia polare diversità napoletana ne intuisco, ammiro e forse invidio un rigore, una grandezza e un masochismo che mi sono sconosciuti; perché è un Re che sa nella sua carne che l’esercizio del potere è per lui non una corona da esibire al mercato per raccogliere i tributi, ma solo sofferenza. Perché sente ancora che il sangue di Antigone murata viva che gli si gela nelle vene è e resterà sangue del suo sangue. Da politico atipico sa che l’ordine che può e deve imporre non è un privilegio ma un servizio che lui stesso per primo paga.

E Bertoldo va verso Creonte, lo guarda negli occhi e gli pone la domanda da due miliardi, fuori dalla cabina e senza cuffia perché l’Enel accetta prenotazioni per la corrente solo a duemilacinquecento anni.
Il pubblico è tutto in piedi, teso, in silenzio; nella tribuna degli esperti riconosco con Edipo, Turandot, Bartezzaghi e Mike Bongiorno. Bertoldo, che ha imparato da Leoluca Orlando ad alzare sempre il tiro della provocazione, domanda: Creonte, tu che solo puoi sapere per simile esperienza, rispondimi: cosa ha provato Freud quando ha saputo del suicidio di Tausk?

Un brivido mi percorre la schiena insieme al pensiero blasfemo che la risposta possa essere “ci siamo levati dalle palle un altro rompiscatole” e questo pensiero fa tremare dalle fondamenta il mio personale castello psicoanalitico. Certo, va bè che glielo aveva chiesto Iddio, ma con Isacco, Abramo la stava facendo proprio grossa; e Laio non fu lui a cominciare con le ripicche ad Edipo neonato ben prima del litigio stradale, con definitiva randellata, al bivio per Tebe? Ma come si fa a voler uccidere un figlio per la dimensione…diciamo così dei suoi piedi, anche se indubbiamente possono rappresentare un pericolo potenziale. Incesto, figlicidio, parricidio sono fantasie caratteristiche esclusive del romanzo familiare o magari costellano anche l’immaginario istituzionale di società-madri e società-figlie?

Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me! Ma quali comete attraversano il mio cielo stellato? Un torto infatti è sempre una macchia che resta in un Karma familiare, specie se lo compie un padre che pretenderei affettivamente perfetto, e da cui assumo una regola. Penso alla dignità letta nella lettera della collega imputata di un reato che qualunque codice di procedura ritiene non perseguibile. E mi domando: uno psicoanalista che si occupa di politica societaria resta uno psicoanalista anche durante questo compito? E se lo ricorda? Certe regole valgono solo nel rapporto con i nostri pazienti o fanno comunque parte dei fondamenti etici del patto sociale umano, del giuramento ippocratico (che dovrebbe esotericamente trasformare la persona che lo compie come ogni rito di iniziazione), forse persino del codice di Hamurabi oltre che dell’etica psicoanalitica: non operare in modo da provocare ad altri dolore e rispetta la libertà con cui l’altro difende la propria differente identità, magari sofferente. Li tiene sempre presenti anche in questo diverso operare, oppure la guerra è sempre guerra e i confini vanno difesi comunque col sangue. Bertoldo naturalmente al suo sangue ci tiene, ma anche alla sua libertà di giudizio e si domanda se il suo cielo stellato può essere offuscato dal sospetto di una sopraffazione politico-scientifica.

Qual è il limite fino a cui il gruppo ha il dovere di mobilizzarsi per difendere l’ortodossia che gli conferisce identità ed il confine creativo in cui gli individui, siano o no mistici, possano produrre liberamente, magari anche il sabato? Questo confine va difeso con la spada o col dibattito scientifico?

Mi spaventa il ricordo del racconto kafkiano “La Colonia Penale”. Una macchina chiodata iscrive sulla schiena del condannato la regola violata finché sia la sua carne stessa, sbranata, a leggerne i segni al di là di qualunque libertà interpretativa del cervello. Che potere istituzionale diverso da quello di Creonte! Elezioni sotto tutela, comitati col placet, revisioni in accordo a…, perfino la pratica che usava il vecchio PCI dell’espulsione dei membri dimissionari; siamo ritornati bambini, tutti, non solo io che, in fondo, psicoanaliticamente mi sono conservato tale…con buona pace di tutti e scusate se abbiamo sbagliato.

Bertoldo ma come ti permetti, la vuoi finire di sfrocoliare la mazzarella di San Giuseppe a tutte le Istituzioni che incontri? Sandler, Lebovici, mica tengono alle spalle Pan e Masaniello come noi che siamo corti e neri; quelli tengono la Magna Charta e la Rivoluzione Francese, sanno il fatto loro e faticano pure per noi. E ne hai abbuscate mazzate e paliatoni a chiedere a tutti: ma tu sei Creonte o la colonia penale? Di Creonte mica ce ne sono tanti. Ma tenessi un sintomo? Si chiamasse coazione a ripetere? Con questa “prova finestra” dell’istituzione va a finire che abbuschi un’altra volta. L’istituzione non è come una mamma che ti deve voler bene pure se sei uno scarafone, l’istituzione è come un padre, un padreterno, un dio degli eserciti con le sue necessarie logiche di potere; tu gli domandi, ma sei Creonte? Quello si incazza e ti manda un fulmine che t’appiccia. T’è già capitato!

Eppure io, Bertoldo provinciale, a rischio del solito manrovescio, chi siete ve lo voglio chiedere sperando che sentiate nella mia domanda irriverente la paura della disillusione d’amore nei confronti di chi, pur conosciuto solo su carta, si stima, il desiderio di riconoscimento di identità, il dispiacere di sentirsi disconfermati ed umiliati, il dolore di sentire offesi maestri la cui rettitudine conosciamo bene, la vergogna di non poter usare indipendentemente e sotto la nostra responsabilità i nostri strumentini, il timore che una giovane società nazionale, cresciuta troppo in fretta e forse troppo male, potesse essere vissuta come pericolosa e perciò…amputata o quantomeno circoncisa.

Ora se avete da raccontare agli adolescenti che interrogano un padre temuto ed amato, che sperano giusto, un Bagavad Gita, come fa Krishna con Arjuna, sulla necessità che il divino arciere compia il suo dovere morale fino i fondo nella battaglia fratricida, fatelo perlomeno come Creonte. La mia generazione, qui in Italia, ha già pagato dolorosamente sulla sua pelle, e purtroppo non solo sulla sua, la disillusione del valore etico della ragione politica e da certi rituali ideologici, che sento inutilmente e pericolosamente crudeli, io mi dissocio. E questa è la mia dichiarazione di voto.

Scusate la modalità oniroide di presentare il materiale di una personale riflessione affettiva. Ho restituito al gruppo, che con i suoi movimenti me lo ha indotto, un brano della mia autoanalisi. Lo ho materializzato qui perché sento in fondo che anche al gruppo esso appartiene e perché non resti sepolto con le sue emozioni nella pericolosa sacca dell’inespresso gruppale; vorrei inoltre aver portato un contributo che ci aiuti, lasciando l’assunto di base attacco e fuga, ad indirizzarci piuttosto verso l’accoppiamento e la speranza che verso la dipendenza.

Credo che come gruppo psicoanalitico non possiamo vivere i nostri avvenimenti scissi dai nostri scenari abituali ed al di fuori delle modalità terapeutico-elaborative che ci sono proprie. Non possiamo non ripercorrerli in parallelo, come facciamo con le storie dei nostri pazienti, con quelle della nostra vita emozionale; è la chiave di lettura del mondo che ci siamo dati, e con tutte le limitazioni, in genere funziona … perché allora non utilizzarla?

Note

  1. Inquadrata in contesti più ampi, la dichiarazione si ritrova anche nel capitolo "Gruppi di analisti in una istituzione di analisti" del mio libro, che uscirà in primavera per Armando Editore: "L'insieme Multistrato - Gruppi, Masse, Istituzioni tra Caos e Psicoanalisi."