13 Aprile 2012 - intervento del prof. Guelfo Margherita
al Dibattito online dei soci SPI: "Istituzione, Gruppi e Alleanze Inconsce"
(1/2/2012 al 14/4/2012, a cura di Francesco Carnaroli e Claudia Pellegrini.)
Guardo le coordinate del nostro dibattito come una porzione definita di spazio-tempo che è stata in grado di contenere, nei suoi confini e per il tempo prestabilito, lo svolgersi e l’accavallarsi caotico e tracimante di una miriade di punti di vista, livelli, linguaggi, oggetti concreti e virtualità. Discorsi differenti, argomenti differenti, registri differenti, interazioni differenti. Tutti adeguati e rimbalzanti contro pareti del contenitore unico che li digerisce ed omogeneizza facendoli propri: la nostra istituzione cioè, convogliata ad esprimersi in questo setting.
Setting: luogo di conoscenza che dà senso all’esperienza che si svolge al suo interno. Questo è dunque materiale a disposizione perché si possa svolgere una "funzione analitica" matrice di identità.
Chi è abilitato a svolgerla?
Innanzitutto ognuno di noi, come analista che riordina il materiale che interessa al suo vertice preferito (pallino) e ne approfondisce l’ottica necessariamente parziale parlandone, da solo, con altri o con l'istituzione stessa ma linearmente, gli specifici linguaggi (scientifico, politico, poetico, rivendicativo, organizzativo, etc; magari giustamente mischiandoli).
Poi c’è il soggetto principale: questo è Lei, la nostra istituzione come ente soggetto, indipendente da noi suoi costituenti, che come un attrattore frattalico sovrasistemico (Cfr. Glieck 1987) coordina ed omogeneizza le traiettorie dinamiche dei movimenti che noi come singoli abbiamo inserito al suo interno. La nostra istituzione è come una polifonia unitaria gruppale (vari strumenti ognuno con la sua specificità). Essa parla con tutti insieme, circolarmente, e non potrebbe essere altrimenti perché omogeneizza Pigazzini e Scalzone, Peregrini e Manica, Vergine e Perini (parlo solo di alcuni dei più gettonati che ho sentito particolarmente vicini). Tutti loro comunque contengono il molto di me che, in differenti parti, proietto dentro di loro e che mi ritorna, in un miscuglio di quanta e qualia, attraverso l’istituzione come un collante identitario che fonde con loro le mie parti dialetticamente contrastanti. Qui, ora in queste coordinate costituiamo, volenti o nolenti, la nostra istituzione con le profonde identificazioni proiettive di tutti noi.
Per capire cosa sta succedendo all’istituzione e quali sono, diciamo così, i suoi pensieri, le sue emozioni, le sue necessità (che poi sono quelle di noi come collettivo sia a livello gruppo di lavoro che a quello gruppo in assunto di base) dobbiamo non usare solo il nostro Io. Questo riflette solo sul nostro personale rapporto con essa. Dobbiamo usare il nostro Noi cioè quella porzione del nostro Io che abbiamo depositato e perso nello zoccolo duro, sincretico dell’istituzione a fondersi con quello dei co-followers, o meglio fellowers, per originare il magma in cui essa elabora e magari sogna la coralità della sua funzione gamma.
E questa funzione gamma (Corrao 1981) che dobbiamo reintroiettare per poterla pensare, magari dopo averla anche noi sognata, per illuderci forse che è la sua voce che stiamo ascoltando nel suo comporsi di vertici polioculari e polifonici e non il nostro personale vertice parziale.
Ho, allora, un Noi felice ed un Io deluso.
Mi sento di far parte di un’istituzione che sta scoprendo statu nascendi il suo setting per fare, ammesso che lo voglia, senza paura delle parole una specie di “autoanalisi identitaria” per cercare di scoprire il suo rapporto con la scienza, la clinica, la democrazia, il sesso, l’organizzazione, l’autostima, l’etica, l’umiltà, l’esistenza degli altri. Un’istituzione che guardi i suoi referenti come democraticamente sostituibili a seconda delle esigenze scelte ma, fiduciosamente, anche come suoi legittimi e solidi tutori. Che guardi anche però alle sue tensioni interne ed ai suoi malumori (sia scientifici che politici) come occasioni di sviluppo evolutivo nel senso darwiniano e non come variabili impazzite da diffamare nei corridoi magari tentando di espellerle. Non dimentichiamo (potenza dell’invidia) le vicissitudini di Bion, Winnicott e M. Klein.
Mi piacerebbe che ci avviassimo ad essere una chiesa (non inorridite parlo in senso metaforico) capace di mantenere aperto il suo contatto col flusso mistico dirompente che l’ha creata e continua a crearla senza avere la paura di esserne distrutta.
Tutto ciò può essere tenuto insieme non da un vertice binoculare che scopre la chiarezza e la distinzione della prospettiva rinascimentale ma dalla rifrazione polifocale gruppale, che io paragono all'occhio della mosca (Margherita 2011), che annulla spazio, tempo e movimento tuffandoci, in una dimensione onirica, nelle coordinate della Guernica di Picasso. Noi napoletani condividiamo poi con i cabalisti la capacità di tirar fuori numeri dai sogni.
E perché allora sono deluso?
Sono deluso perché non mi pare di avere sufficientemente messo in circolo un coinvolgimento chiaro sulla legittimità delle domande che in vari interventi ho provato a proporre riguardo la flessibilità che la nostra istituzione è disponibile a dare all'identità psicoanalitica: ad esempio è psicoanalisi solo quella che si svolge nel setting codificato duale? È psicoanalitico occuparsi di stati mentali transpersonali gruppali? Si può indagare scientificamente il rapporto tra la psicoanalisi ed il campo sociale in cui è collocata? Con quali strumenti? È possibile usare modelli (e metafore) tratti da altre scienze (meccanica quantistica, fisica del caos) da usare per questo tipo di indagine? È legittimo pensare alla necessità di adattare variabili e fissare invarianti nella trasformazione topologica degli assetti psicoanalitici dal setting duale a quelli più complessi come quello gruppale e istituzionale? Senza questa flessibilità come è possibile compiere ricerca libera e riconosciuta su temi che hanno a che vedere con le probabili linee di sviluppo future della nostra disciplina rispetto alle richieste (campi, costi, servizi, interdisciplinarietà) che le pervengono dal sociale e dalla cultura.
Continua ad essere forte il mio pregiudizio che il nostro insieme, come istituzione, continui a difendere, in maniera obbiettivamente perdente ed a rischio di nostra estinzione, i limiti di una cultura e di una creatività tendenzialmente chiuse su se stesse entro cui solo viene considerato legittimo pensare ad una ricerca psicoanalitica. Mi pare che tendiamo, come comunità di ricercatori, più a chiederci reciprocamente le fonti dei nostri saperi specifici piuttosto che quali sono le situazioni sperimentali che creiamo o utilizziamo per fare ricerca. In fondo le istituzioni, e perché no i servizi del prossimo dibattito, ce ne offrono a iosa.