di Guelfo Margherita, tratto da:
Gabriellini G. (a cura di) "Il pensiero gruppale nel lavoro con il paziente, nella supervisione, nei servizi",
Felici Editore, Pisa, 2013
Provo a ricucire a distanza di tempo e spazio gli interventi che ho fatto partecipando al dipanarsi di un pensiero gruppale stimolato sia dall'eccezionale contenitore architettonico del Palazzo dei Cavalieri di Pisa, prestigiosa sede della Scuola Normale Superiore e perciò imbevuto del prodotto dei migliori cervelli nazionali, sia dai vivaci contributi delle relazioni dei colleghi che hanno saputo questa voglia di conoscenza tra di noi risvegliare e vitalizzare, e sia, last but not least, il viatico di nostri maestri pocanzi citati, Gregorio Hautman e Salomon Resnik, a proseguire sulla strada da essi indicata nei precedenti incontri.
La prima emozione che voglio restituire, maturata all'interno di questi contenitori e frutto poi dei miei ripensamenti successivi (second thought), è la piacevole sensazione di sentire il mio Io e il Noi a cui avevo partecipato, perfettamente integrati in discorsi che fluivanono gli uni negli altri (il mio pensiero scorre in quello del gruppo e quello del gruppo scorre dentro di me). Mi sono vissuto dunque un’atmosfera condivisa che ci ha permesso di conoscerci, divertirci, crescere insieme. Credo che quest'esperienza gruppale sia stata merito principalmente della accogliente flessibilità degli organizzatori nel saper cogliere e seguire i movimenti del nostro insieme, ma anche di tutti noi partecipanti ad aprirci al nuovo, allo scioglimento dell’ufficialità istituzionale della "organizzazione convegno" ed alla nuova redistribuzione della circolazione delle informazioni in una più affettiva "atmosfera gruppale".
Questa considerazione mi permette l’inserimento di un vertice asimmetrico e dissonante rispetto all’armonico usuale svolgersi di un discorso scientifico sui contenuti portato avanti, a livello gruppo di lavoro, da un insieme di psicoanalisti che parlano, in un convegno, di come loro lavorano in istituzione. Provo allora a dirmi: e se invece dei contenuti ci mettessimo a fuoco noi stessi qui ed ora, col nostro ascolto, riflessione, intervento; noi cioè come contenitore? Cosa può averci facilitato la sensazione collettiva di avere fatto un buon lavoro e la voglia di rivederci per potere continuare? Ci sono per esempio precursori, preconcezioni, organizzatori, occasioni gruppali, interventi, accadimenti che possono aver messo in moto un campo sufficientemente omogeneo, che può viversi anche come fertile, fatto di profondi stati d'animo condivisi; sto descrivendo qualcosa di simile ad un mood trasversale, magari sotteso da un ideale tendente ad uno scopo. Può essere stato tale mood il presupposto affettivo, la voglia condivisa, che ha organizzato il nostro campo mentale transpersonale a poter accogliere, incanalare e rendere utilizzabile lo sviluppo di un pensiero comune, coerente col desiderio di conoscenza ma anche d'identità, creato dagli organizzatori e condiviso da noi tutti come contesto dell'incontro. Sto cercando di capire se noi qui costituiamo un ente collettivo e quanto partecipiamo al suo lavoro per costruirsi una sua propria identità.
L’interesse che provo ora ad intervenire riorganizzando ciò che ho detto al convegno è legato dunque a due ordini di fattori: il primo è il desiderio di osservare come la mia testa si sia confrontata con le relazioni tenute da dei colleghi che conosco e che stimo, su argomenti che sono l’interesse prevalente dei miei studi e delle mie ricerche. Una modalità di approccio che potremmo chiamare lineare e con l’attenzione rivolta al contenuto, e fin qui niente di nuovo, una normale partecipazione ad un convegno che mi intriga. Il secondo fattore è invece l’interesse al contenitore. L’interesse cioè alla mia testa stessa, ora però persa nella nostra testa gruppale, qui ed ora, e l’osservare come essa possa aver contribuito allo svilupparsi tra noi di un discorso collettivo, circolare; cioè il dialogo possibile tra una mia testa-io ed una mia testa-noi. E' questa una binocularità che dovremmo cercare di tenere costantemente accesa quando ci interroghiamo su che cosa stiamo facendo in un gruppo.
Sto provando a sovrapporre ed integrare, usando la binocularità cara a Bion, un contenuto ed un contenitore, ed insieme quindi un individuo ed un gruppo, un lineare ed un complesso, un finito ed un infinito. L’uno può essere, per esempio, lungo la logica lineare dello svolgimento istituzionale del convegno, l’uso per la comprensione del senso di ciò che stiamo facendo della stimolante relazione di Anna Ferruta (la paziente, la psicosi, l’équipe, la supervisione ed il suo riferirne a noi); l’altro potrebbe contemporaneamente essere il mio sentirmi parte, ora, di questo contesto gruppale che si incontra qui stamattina forse per verificare la possibilità di elaborare un suo pensiero in comune sulla psicoterapia della psicosi nei servizi usando come strumento il gruppo. Mi riferisco ai molteplici incontri, che proprio in questo momento stanno accadendo, nei nostri spazi mentali individuali e forse, perchè no, gruppali, tra i differenti strati di gruppalità tra di noi evocati: la paziente e la psicosi appunto, la équipe, la supervisione, fino ai nostri singoli Io riuniti qui a cercare di raccogliere il loro pensiero in convinzioni sovra-sistemiche gruppali.
Provo allora a mettere in circolo un paradosso confusivo. E' possibile considerare anche lo stato di gruppalità come una malattia (cioè l’alieno) che destruttura le usuali categorie lineari, ed i loro relativi vertici, al cui interno sia la psicosi che la psicoanalisi ritengono chiaramente di sapere distinguere con certezza chi è il malato? E l’operazione di supervisione all’équipe eseguita dalla collega può allora essere equiparata ad un intervento terapeutico che restituisca vertici coerenti per il gruppo in cui esso possa ristrutturarsi una logica identitaria collettiva attraverso il riconoscimento contemporaneo del suo doppio ruolo di “curante” e di “curato”? Chi è, o chi sono, i pazienti, ed in fondo cosa è che si cura? Penso che queste confusioni geografiche non siano aliene allo scetticismo della istituzione psicoanalitica nei confronti del lavoro in istituzioni. L'istituzione è un sistema dinamico complesso ed al suo interno, per mantenere intatto il loro valore analitico, perfino agli stessi setting, transfert ed interpretazione vanno adattate trasformazioni topologiche che li adeguino al nuovo contesto. Sono queste necessità che inevitabilmente generano alcune delle difficoltà che incontra il riconoscimento come psicoanalitico dello studio di questi vasti campi transpersonali.
Sono sempre stato interessato ad osservare i livelli più profondi in cui è possibile scomporre la gruppalità per poter cogliervi le eventuali asimmetrie di pensieri e di relazioni che vi si producono. Nel materiale clinico che ci ha portato la Ferruta per esempio, chi noi qui dobbiamo considerare il paziente, o meglio l'oggetto della nostra analisi? Se scomponiamo i livelli, paziente potrebbe apparirci la ragazzina che porta il problema, oppure l’operatore che si occupa di lei, e poi l’équipe tutta e financo lo spazio di supervisione; il paradosso potrebbe essere considerare oggetto della nostra analisi il controtransfert della Ferruta stessa, e poi magari quello di ognuno di noi su ciò che ella ci ha suscitato. Evidentemente ciò comporterebbe tra di noi la creazione di un campo analitico complesso pieno di reciproca fiducia creativa, per poter tutti insieme apprendere dall'esperienza che insieme stiamo facendo. E' questo campo, col suo particolare clima, il luogo in cui possono ricomporsi, sovrapponendosi, i differenti livelli delle gruppalità direttamente o indirettamente introdotti dalla relazione della collega. D'altrocanto è questo il luogo in cui prende forma anche il soggetto che tale analisi è poi abilitato a compiere; mi riferisco al nostro "Noi" gruppale che come ente collettivo secerne il pensiero pluricentrico che esercita la funzione analitica su tutto il complesso materiale multilivello ora presente nel campo.
Tale soggetto plurale è complesso, come lo è il materiale che osserva, perchè contemporaneamente raccoglie, contiene ed elabora le relazioni crociate di tutti gli "enti" soggetti osservanti contenuti da Noi, qui ed ora, che ci occupiamo insieme del nostro gruppo, della supervisione fatta dalla collega, della équipe che va in supervisione e della mente dell’operatore che cura la paziente, fino alla la psicosi nella mente della paziente stessa. Tutti questi oggetti risultano allora osservati sincronicamente da una miriade di punti di vista scaglionati a livelli diversi delle nostre differenti singolarità. Ciò comporta, di conseguenza, la strutturazione di una miriade concentrica di unità osservanti e pensanti metapensieri gruppali e coaguli di pensieri individuali che fluttuano alla ricerca di un eventuale pensatore metasistemico (per esempio: noi come gruppo) per la loro integrazione. Il sapere pensare in gruppo per me diviene allora la capacità di saper oscillare tra il simmetrico onirico di quella parte del mio pensiero entrata a far parte per identificazione proiettiva dello zoccolo duro del “Noi” istituzionale a cui sto ora contribuendo e quella asimmetrico scientifica del mio “Io” in cui cerco di costruire linearmente il senso trasmissibile che ora sto provando a dire.
Credo che sia qualità del nostro campo e target della nostra comunità scientifica cercare di dotarsi di un linguaggio sufficientemente elastico (bilogico?) da essere capace di usare la complessità per integrare i differenti livelli di ciò che può produrre il Noi in un unico discorso globale; ma esser contemporaneamente in grado anche di tener separato ed elaborare in parallelo ciò che possono produrre i singoli Io (di nuovo il riferimento è alla binocularità).
Allora il nostro pensare in gruppo potrebbe essere una capacità di contenere e tollerare le dissonanze e le pluralità del Multilivello e le relative confusioni nella complessità, riuscendo a restituire, ad ognuno di noi ed ad ogni livello, i discorsi riordinati da una logica lineare. Pensiero di gruppo e pensiero individuale verrebbero così a contrapporsi ed integrarsi dialetticamente in un’oscillazione continua di reciproche validazioni.
Credo quindi che, per quanto ci riguarda, risposte agli interrogativi sul funzionamento della mente istituzionale e sulla sua capacità di produrre pensiero di gruppo, potranno essere trovate nella e dalla capacità auto-analitica del nostro gruppo stesso ad esperire ed elaborare qui ed ora la possibilità di sovrapporre ed integrare i livelli plurimi di organizzazione che stiamo provando a sperimentare insieme ..... e nel produrne modelli.
Fin qui mi pare che il discorso portato avanti sia un discorso "sul gruppo" non un discorso del gruppo. Esso si presenta come elaborato linearmente dentro il mio cervello che osserva, magari connesso a rete, qui insieme con gli altri. La differenza col discorso "del gruppo" è che questo invece dovrebbe presupporre la possibilità di individuare e definire, come soggetto altro, un'entità sovrasistemica che mi trascenda e mi contenga, capace magari di sentire e parlare in prima persona utilizzando gli individui in essa presenti come suoi organi magari vocali. Sto parlando di quello spazio mentale collettivo dove staziona il sentimento oceanico (Freud) e dove si costruisce la Koinonia (Corrao). I contenuti mentali emotivi che nuotano in questo contenitore, vera e propria pancia gruppale (forse sede del suo inconscio), passano attraverso l'ombelico con cui io come individuo sono connesso ad essa (un vero ombelico del sogno) per utilizzare la mia voce. come quella di un porta-parola di Kaes, per essere espressi. Sto dicendo che se sto raccontandovi il sogno di un nugolo di calabroni, mentre faccio parte di un gruppo realmente perseguitato, forse sto anche, attraverso il ponte del mio ombelico che mi connette alla pancia del gruppo, dando voce all'angoscia di tutto il gruppo.
Con questo presupposto provo a immaginare di riprendermi la mia identificazione proiettiva che ha costruito, insieme a quella degli altri, lo zoccolo duro dell'entità gruppale, insieme alla quota di vissuto del noi che le è restata appiccicata addosso, per raccontarla. Provo cioè a dar voce, necessariamente trasformata da me come individuo, a ciò che ho sentito presente nel sovrasistema in cui sono calato. Vengo cioè all'esperienza emotiva da cui, come vi ho detto, immagino che il nostro insieme sia stato, più o meno coscientemente coinvolto, a contatto delle relazioni di Neri e di Boccanegra. Un'esperienza comune è stata condivisa dalle due relazioni, non come portato dei diversi contenuti sui cui dialogare razionalmente e logicamente ma come coaguli di emozioni comuni in grado di mettere in moto il cervello gruppale per far pensare e sentire, magari subliminalmente, al gruppo il suo posizionarsi e i suoi movimenti. Questo precursore di identità comune, matrice della possibilità di un pensiero gruppale, che sto ora cercando di indicare, è stata nel nostro caso l'Assenza. L'assenza in un caso del corpo vivo di Claudio tra di noi, sostituito dalla sua relazione letta da altri, oppure, per converso, della relazione scritta (il copione della prassi istituzionale) che Gigi ha generosamente sostituito col suo vivace discorso a braccio.
Claudio Neri ci ha raccontato che in un gruppo di supervisione, che affrontava con lui il problema del non riuscire a parlare della morte suicidale di uno dei pazienti, ha utilizzato come oggetto mediatore scritti riguardanti il gruppo. Questa tecnica mi sembra abbia potuto contenere ed incanalare lo sgomento ed il dolore del gruppo ridando senso condiviso al lavoro istituzionale. Ma ciò che mi interessa qui è notare come tale ritualità istituzionalizzata possa essere stata riattualizzata tra noi dallo stimolo dell'assenza di Claudio. E' comparso tra noi un nuovo oggetto mediatore (il suo scritto letto da altri) che, per l'assenza, abbiamo visto trasformarsi in un'urna funeraria contenente le ceneri dell'eroe ammirato (grattati Claudio, in fondo la fantasia è solo frutto dell'invidia per il tuo essere uno dei padri e per il tuo bel contributo). L'agape finale di Claudio invitato a cena dagli organizzatori del suo gruppo è esitata nel nostro recarci al buffet dei congressisti a consumare la nostra quota di pasto totemico. Claudio è mancato molto al nostro insieme che, per gestire il vuoto dell'assenza, ha agito il suo stesso suggerimento di usare l'oggetto mediatore per costruire una comunione.
Per fortuna la nostra istituzione convegno, nel suo percorso di stamattina, non ha avuto il tempo di ossificarsi in una struttura accademica. Ci ha pensato Gigi Boccanegra, col suo discorso a braccio, magari armato dal pungiglione delle sue api psicotiche, a sacrificarla sull'ara dei desideri orgiastico-creativo-riproduttivi della nostra comunità. Lo sciogliersi della usuale regola congressuale e dei ruoli della organizzazione istituzionale, operata dal suo rinunciare alla relazione per aprirsi subito al dibattito, ha allora avviato la circolazione di discorsi affettivi, pieni di speranza costruttiva e di assunto di base accoppiamento: il tutto culminato nel racconto, da lui fatto, di un film in cui un algido Fred Astaire in frac, dopo che uno sciuscià nero gli ha lustrato le scarpe di vernice, si scatena con lui, sedotto dal ritmo, in un travolgente tip-tap.
Come un cambiamento di stato in un ammasso proteico, il gel dell'istituzione è diventato il sol del gruppo ed il compito prevalente a cui ci dedichiamo ora non è più produrre pensiero ma sentire le emozioni ed i legami; contattare cioè i precursori che rendano poi possibile il poter pensare insieme.
L'ideale sarebbe poter riuscire a contenere sincronicamente, magari in una danza piena di speranza, l'oscillazione della contraddizione sentimento-ragione che produce il pensiero dinamico di un gruppo. Stare in bilico sul corpo calloso favorendo l'incontro tra cervello destro e sinistro, tra creativo disordine gruppale ed accademia istituzionale: cioè tra lineare e complesso, colpa e persecuzione, bianco in frac e nero in ritmo, cimitero ed orgia; la nostra esperienza di oggi ci avrà allora condotto a percepire la nostra koinonia nella contemporaneità di una presenza forte e strutturante di un contenitore prestigioso e la guizzante evanescenza per le emozioni contenute in un'assenza generatrice di un vuoto creativo.
Questo è il tipo di pensiero gruppale che mi ha fatto piacere ripescare nel contenitore istituzionale del convegno. Proporvi cioè di creare collegamenti, tenerci in rete, costruire insieme strutture istituzionali ed ulteriori convegni, magari una sezione della nostra istituzione, in cui elaborare la densità delle comprensioni e delle incomprensioni legate a difficoltà intrinseche, ma magari anche ad egemonie, rivalità, gelosie, invidie proprie di questi livelli gruppali. La speranza potrebbe essere quella di essere tenuti insieme come gruppalità da un entusiasmo creativo che potrebbe secernere, nel campo custodito della nostra istituzione, un pensiero psicoanaliticamente nuovo sull'istituzione, la sua mente ed il loro funzionamento.
Per chi fosse interessato ad un approfondimento della linea di pensiero retroterra di questo intervento il suggerimento bibliografico va agli articoli raccolti nel mio libro "L'insieme multistrato. Gruppi, masse ed istituzioni tra caos e psicoanalisi" e magari al sito, ricco anche di filmati clinici: www.thecomplexmultilayerset.com